Visualizzazione post con etichetta compiti della prof. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta compiti della prof. Mostra tutti i post

mercoledì 8 gennaio 2020

i compiti della prof - inserisci sequenze di ampliamento


La Cicala e la Formica

Durante l’estate, una cicala cantava posata su un filo d’erba mentre sotto di lei, una formica faticava per trasportare al sicuro nel suo formicaio i chicchi di grano. 
descrivi la formica
Ogni tanto, la cicala, chiedeva alle formiche: “Perché mai lavorate tutto il giorno? Venite qui con me, all’ombra dell’erba: starete al fresco e potremo cantare insieme”.
Ma la formica, continuavano a lavorare: “Devo preparare le provviste per l’inverno; quando la neve avrà ricoperto la terra, non resterà più nulla da mangiare.” 
descrivi i pensieri della formica
La cicala non riusciva proprio a capire la formica. Del resto, l’estate era ancora lunga e di tempo per mettere da parte le provviste ce ne sarebbe stato fin troppo. Così continuò a cantare e l’estate finì.
Venne l’autunno: non c’erano più frutti in giro e la cicala vagava di qua e di là, sgranocchiando gli steli ingialliti dell’erba e qualche foglia ormai essiccata. Ma anche l’autunno finì: arrivò l’inverno e la neve coprì la terra. Non era rimasto più nulla da mettere sotto i denti.
La cicala batteva i denti dal freddo e aveva una gran fame. Un giorno, sotto la neve, raggiunse una casetta piccina; guardò dentro, passando accanto alla finestra e vide la formica che stava al calduccio riparata dalla neve, sgranocchiando i chicchi di grano che aveva messo da parte.
Infreddolita, la cicala bussò alla porta.
“Chi bussa?”
“Sono la cicala; sto morendo di freddo e non ho più niente da mangiare”.
“Mi ricordo di te: quest’estate, mentre io lavoravo duramente per prepararmi all’inverno, tu cosa facevi?”
“Ho cantato!”
“Hai cantato?” rispose la formica “E allora adesso balla!”
inserisci un dialogo
Poi, chiuse la porta e lasciò al freddo la cicala.
inserisci cosa succede dopo



descrivi la formica Era una di quelle formiche grosse e dure... nera e lucida.
Sembrava indossare una corazza. Una corazza dura, impenetrabile.
Era una formica forte, era capace di trasportare i semi più grossi senza fatica. Al formicaio la stimavano tutti. Tutti le portavano rispetto. Non si era mai vista una formica tanto in gamba.


descrivi i pensieri della formica Mentre correva sul terreno sassoso non pensava a niente: cercava un seme, lo caricava, correva veloce verso il formicaio, lo depositava e partiva di nuovo.
Non si accorgeva dell'ombra degli alberi, non guardava mai il cielo, non le interessava se c'era, il sole o se era nuvolo. Continuava e raccogliere anche quando i grossi goccioloni del temporale estivo la colpivano e le rendevano difficile la strada perché lei pensava di essere nel giusto, che la vita vera va vissuta così: lavoro, duro lavoro, per il bene di tutti, di tutto il formicaio.


inserisci un dialogo La cicala non si arrese: “Ti ricordi com’era bella l’estate? tutti quei suoni nell’aria… non riuscivo proprio a stare ferma e zitta”
La formica proprio non riusciva a ricordare e lo disse: “Sai? non me lo ricordo proprio, quando lavoro la mia mente e la mia volontà si concentrano sul lavoro: gli occhi sono concentrati sul terreno alla ricerca dei semi…”
“Come mi sarebbe piaciuto che tu mi avessi ascoltato un po’. Non ti sembra triste non riuscire ad accorgerti della bellezza della musica, dei colori, dei profumi dell’estate?”
“La bellezza per me è la salvezza del formicaio. la bellezza è pensare che durante l’inverno i piccoli abbiano qualcosa per nutrirsi, che quando sarà di nuovo primavera saremo di nuovo tutte lì, e la vita riprenderà il suo ciclo. Ecco, per me la bellezza è il ciclo della vita che ogni anno si ripete anche grazie al mio duro lavoro”


inserisci cosa succede dopo Entrambe si guardarono bene negli occhietti. Non sembravano così diverse. Entrambe amavano l’estate quando il mistero della vita le penetrava fino dentro ogni pensiero.
Dietro la porta la formica si sentiva al caldo e al sicuro. Era così che doveva andare: le formiche erano destinate a sopravvivere all’inverno, le cicale no, le cicale dovevano morire. Pensò che avrebbe potuto aprire la porta, anzi, mise la zampetta sulla maniglia perchè aveva capito, ma non riusciva proprio a farlo. Certo ora non pensava più che la Cicala fosse pigra e piagnucolosa. però, si disse le cose devono andare così, è il ciclo della vita, le formiche sopravvivono nel formicaio. Anche la Cicala indugiava dietro la porta, stava per bussare ancora, forse ce l’avrebbe fatta a convincere la Formica, aveva visto dei segni di cedimento. ma non bussò. Sapeva che con la primavera piccole cicale avrebbero riempito l’aria del loro frinire. Si disse che le cose dovevano andare così, è il ciclo della vita, le cicale non sopravvivono all’inverno.

martedì 12 novembre 2019

I compiti della prof - descrizione sensoriale al buio

Quando cammini in una casa di notte, al buio e la riconosci, ti appartiene, è la tua casa. 

Ho cambiato letto e prospettiva. Anche se c’è il parquet come nella mia vera camera da letto, sento la consistenza lucida e densa di questa casa milanese dove tra una riga d l’altra non si percepisce discontinuità. Anche qui cammino a piedi nudi di notte senza ciabatte e i piedi si orientano. Appena mi alzo Poggio su un tappeto, largo abbastanza per fare tre passi, poi con le mani tocco la cornice della porta, che tengo socchiusa per non far scattare la maniglia. La trovo peró con le mani, il metallo di notte è più freddo del legno. Sto attenta a non tirarla in giù perché il cigolio non disturbi la notte. Le macchine non passano, a tratti si sente la ferrovia ma è un suono che corre nel buio e fa parte dello sfondo e non lo senti.

La porta si apre nel silenzio. Un attimo e senti i respiri, un corpo che si gira nel letto, un movimento nel piano di sopra o di sotto(?) mi concentro ma non capisco.
Nel corridoio due passi normali o tre piccoli, legno, tappeto legno. La porta del bagno, come tutte le altre della casa ha le doghe dal lato verso il corridoio ed è liscia nella parte interna. Il pavimento ora è freddo di mattonelle. La porta non la chiudo, la accosto per filtrare il rumore. Attenta ai passi: uno, due, gradino, c,è una metà rialzata del bagno a interrompere la regolarità. Con la mano destra accompagno il mobile e il lavandino. Alla fine, sul lato opposto c’è il vater. La tavoletta la lascio lì com’è, potrebbe fare rumore. Sento persino il fruscio dei pantaloni del pigiama che scivolano lungo le gambe. Hanno già acceso i termosifoni piano piano. Sono centralizzati e la temperatura è costante giorno e notte. Mentre me ne sto seduta sulla coscia sinistra sento la stoffa della tenda e il tepore. Sto attenta a trovare la posizione giusta per non far rumore e non scarico mai di notte, ci penserò domani.

Il viaggio di ritorno segue lo stesso percorso, tranne la fine, quando le braccia protese e la punta dei piedi cercano il letto. È ancora caldo, ho lasciato la coperta a trattenere il calore e ora scivolo dentro che è un piacere, per i piedi soprattutto che ritrovano la nicchia sul materasso. L’odore delle lenzuola e del cuscino mi è familiare e estraneo al tempo stesso, mi ricorda quello della casa di mia zia, di quando arrivavo per un viaggetto e c’era la torta di mele pronta e la casa era lunga e stretta, lungo il corridoio, la cucina e il bagno con la caldaia a gas. Era una cosa da città la caldaia a gas. C’era sul pianerottolo la porta che permetteva di gettare i rifiuti nella stanza dei rifiuti. Era proprio così? Me lo chiedo ancora se non fosse una specie di sogno.

E l’odore del cuscino ora è simile ma un po’ diverso al tempo stesso. Si percepisce di fronte al letto la sagoma bucherellata della finestra e dietro la città.

venerdì 4 ottobre 2019

I compiti della prof - un film in un immagine - Wargames 1983


Anche se nel bar, come in tutti i bar davanti la scuola, i rumori si inseguivano e si riproducevano a volume sempre più alto; anche se la luce del mattino entrava prepotente, nel bar c’era un altro luogo. Un luogo nel luogo. Erano due ambienti simili e opposti al tempo stesso. Una specie di matrioska. 
David era al livello della bambolina più interna, la matrioska che non si apriva, perché era l’ultima, era il nucleo della vita. La sfida. 
David e lo schermo nero erano uno lo specchio dell’altro. Il nero rifletteva il volto di David ma al tempo stesso lo catturava come se anche lui facesse parte del gioco. Lo sfondo nero era riempito dalla faccia assorta di David. Era concentrato, il ragazzo. Le mani si muovevano velocissime all’inseguimento dei nemici. Le traiettorie degli alieni correvano sulla faccia di David, intrecciavano percorsi di punti luminosi azzurrini  intorno al naso, agli occhi, alla bocca e si perdevano...
Un’ombra gli tagliava a metà il profilo. La metà in ombra era la metà nascosta, quella di un ragazzo curioso, che affrontava le sfide come un videogioco, pronto a passare al livello superiore, a non perdere la moneta già inserita nella macchina. L’altra metà, quella in chiaro era l’aspetto che mostrava agli altri, a scuola, con i compagni, le battute al prof, la consulenza psicologica ricorrente e inutile, i genitori persi dietro le loro cose. La camicia a quadretti sbottonata sulla maglietta a girocollo era la sua divisa. Banale, uguale a tutti gli altri. Uguale?

mercoledì 2 ottobre 2019

i compiti della prof - descrivi l'immagine che hai scelto



L’hotel aveva un’insegna rossa. Le lettere erano squadrare e sporgevano all’angolo della facciata, in verticale. Ogni lettera era agganciata al muro con due staffe di ferro. Nonostante fosse davanti al mare non sembrava che la ruggine le avesse intaccate. Le pareti della facciata erano dipinte di bianco. Un bianco caldo che tendeva al sabbia.tra un piano e l’altro (era un piccolo hotel a tre piani) tre fasce di ardesia un po’ spioventi creavano un netto contrasto.

Ero proprio all’altezza delle lettere “tel”, il sole era quasi perpendicolare e creava una zona d’ombra che sfiorava la parte superiore delle finestre. Le vedevo tutte e due. Erano evidenziate da una cornice di muratura e gli infissi erano di legno appena più chiaro. Ogni finestra era divisa in due parti. Erano di quel tipo che si apre alzando la metà inferiore. Quella più vicina all’insegna era chiusa: un rettangolo grigio-blu segnato a metà. 

Poggiato sull’ardesia c’era un gabbiano. Voltava il dorso al mare. Lo vedevo di profilo, immobile. Sembrava che avesse gli occhi socchiusi, controvento. Il mare dietro di lui era quasi calmo appena striato di bianco. 
La giornata aveva colori netti e decisi, il mare era molto più intenso del cielo che all’orizzonte si schiariva, diventando quasi bianco. Era limpido il cielo. Una piccola nuvola bianca solitaria di allontanava spinta dal vento. 
Il gabbiano invece rimaneva immobile nel vento ma ogni tanto sembrava aprire gli occhi e fissare l’uomo. 

Anche l’uomo aveva il volto rivolto all’uccello. Era affacciato all’altra finestra, quella aperta. Si appoggiava con le braccia sul davanzale e una mano era tranquillamente abbandonata verso l’esterno. Si era portato la tazza del tè e l’aveva poggiata accanto a sè affacciata insieme a lui. Avrebbe finito di bere lì, mentre guardava fuori. 
Indossava un maglioncino grigio da marinaio con il collo a lupetto. Aveva tagliato da poco i capelli. La luce faceva risaltare la dominanza del rosso e disegnava un’ombra lunga sul viso.

Poi c’era la tenda. In alto disegnava una specie di sipario, come a teatro. Poi uno dei due teli, catturato dal vento uscì dalla finestra aperta e si spiegò verso il mare quasi fosse un’altra nuvola, trattenuta questa, che non riusciva a prendere il largo.

venerdì 27 settembre 2019

I compiti della prof - scrivi di te in terza persona, come se scrivessi un racconto con te protagonista, raccontando come sei diventato alla fine del viaggio della scuola media

Anche la prof era cambiata in questi tre anni. Invecchiata? Certamente. Era già da tempo che si riferiva a se stessa come nonnaprof. Lo aveva fatto la prima volta quando i primi alunni avevano iniziato ad avere figli, poi lo era diventata davvero, nonna. Ora anche sua nipote era a scuola e, come era successo per i suoi figli, era diventata uno specchio magico attraverso il quale rivedere in modo ancora più critico il suo modo di fare.
Questi tre anni erano passati in fretta anche per lei. Come sempre gli alunni entravano bambini e crescevano crescevano ma non era prevedibile ancora come sarebbe andata a finire; il senso di accompagnarli nel mondo sarebbe appartenuto, come sempre, ai prof delle superiori. Loro sì che avrebbero intravisto il frutto del loro lavoro.
Come ogni volta si era chiesta perché non ambisse ad insegnare alle superiori. E come sempre (allora non cambiava mai?) si era risposta che due cose le piacevano della scuola media: il miscuglio di provenienze, di storie, di paesi e di esperienze dei suoi ragazzi e poi, o soprattutto?, il sogno che ancora lei potesse fare la differenza. Tra dieci e quattordici anni fare amare la scrittura, riuscire a chiedersi sempre il perché delle cose, non studiare per il voto... era ancora convinta che i suoi alunni fossero abbastanza ‘giovani’ da riuscire ad essere diversi, ovviamente grazie a lei. Era presuntuosa.
E lei? Era cambiata? In questi tre anni come era diventata?
Diciamo che i capelli erano diventati più bianchi. Tanti fili d’argento. Erano stati tre anni faticosi. Era diventata più paziente, anche se le era costato tantissimo. Aveva fatto delle scelte che spesso le famiglie dei suoi allievi non condividevano. E se ne era stata lì per tre anni a spiegare il perché delle sue scelte, a giustificarle... ecco, mentre con i suoi alunni e i genitori parlava, parlava, spiegava... era successo che nel frattempo si interrogasse sul perché della vita, su quali fossero le cose per cui valesse la pena faticare, sugli obiettivi che aveva dentro e di cui a volte non percepisse la presenza. 
La lavagna racconta quello che gli alunni ritengono UTILE per affrontare il viaggio della scuola media.

Aveva anche iniziato a vivere di più il presente, immersa negli attimi. E ora, mentre li guardava, quei ragazzi che facevano l’ultimo esercizio di scrittura, pensava che tutto sommato erano cresciuti, non ne aveva perso nessuno, avevano meno paura della scuola, dei voti, non cercavano di “essere furbi”, erano ancora curiosi come bambini dell’asilo (vabbè si dice scuola dell’infanzia). E lei? Di cosa era curiosa?

lunedì 23 settembre 2019

I compiti della prof - impressioni, connessioni, domande

Classe 1C - lettura albo IL BUON VIAGGIO

IMPRESSIONI
Quando ho comprato questo libro, mi sono lasciata suggestionare dalle recensioni di alcune colleghe, come me appassionate di scrittura e lettura per ragazzi. Poi, quando ho cominciato a sfogliarlo mi hanno assalito i dubbi: le immagini molto belle certamente, ma difficili, così vuote di esseri umani, i colori spesso cupi, il protagonista, vecchio e sempre di spalle col cappotto pesante che lo infagotta, spesso la notte, sì, con la luna ma anche con la nebbia. 
E poi il testo: praticamente una poesia in cui si rincorrono frasi tra loro opposte: è buon viaggio quando sei solo e quando sei in compagnia, è persino buon viaggio quando pensi di fermarti.
Non ero sicura neanche che il libro piacesse a me. Eppure mi catturava. Giravo e giravo le pagine e pian piano scoprivo. Erano le inquadrature. In ogni pagina trovavo un angolazione che non avevo previsto. Ora lo sguardo di chi vedeva il disegno era quasi all’altezza della strada, come se fosse sdraiato per terra, e questa diventava lunga e infinita; ora invece guardava in alto verso il cielo e nel cielo si stagliavano le direzioni possibili; ora l’uomo, in una strana prospettiva era alto quasi o forse meno di un pinguino... 
allora ho deciso che nonostante la solitudine, la difficoltà, la strana tristezza, i contorni rarefatti, poteva essere un buon libro per cominciare.

CONNESSIONI
Quando ero piccola viaggiare non era un’esperienza così diffusa. Tra i miei compagni di classe pochissimi avevano vissuto esperienze di viaggio. Io ero privilegiata. 
Dovevo fare un lungo viaggio ogni anno. Era il viaggio dell’emigrante che ogni estate torna alla sua terra di origine ed era un viaggio lungo. Se ci penso non riesco mai a ricordare quello del ritorno, solo quello di andata. 
Erano i tempi in cui si viaggiava vestiti bene, gli uomini in giacca e cravatta, le donne con un tailleur comodo. Mi ricordo la frenesia interiore che mi prendeva qualche giorno prima di partire, perché si trattava di un’avventura. Sempre. Sopportavo anche l’idea del ritorno a casa, della fine della libertà e della vita solitaria dell’inverno, perché in mezzo c’era il viaggio. Un viaggio vero che durava almeno due giorni: macchina, navi, treno e persino un piccolo tragitto in carrozza. Era un viaggio che assomigliava a quelli che leggevo nei libri, il traghetto aveva lo stesso sapore delle navi di Salgari e salire a dare una sbirciatina su, in alto, dove c’è il timone (all’epoca i comandanti erano molto permissivi con le bambine) rendeva vero il mio essere corsaro nero.
Eppure nella mia vita c’è stato anche un tempo in cui viaggiare è stato tagliare gli ormeggi e sentirsi alla deriva. É stato il tempo in cui, anche se ero giovane ed energica, partire era faticoso e il mare tropo grande da attraversare. In quegli anni ho sofferto il mal di mare, poi è passato.
Mia nonna da piccola mi aveva insegnato un sacco di canzoni e filastrocche. In tutte c’era una barca, un mare, un viaggio. Per me i viaggi spesso hanno inizio e fine in un porto.

DOMANDE, DUBBI e QUESTIONI APERTE
Perché l’uomo sembra un vecchio? Perché è sempre infagottato in un cappotto? Perché non se ne vede il volto? Sono forse io quel vecchio? E di chi è il punto di vista del disegno? I colori scuri sono forse le parti più nascoste e in ombra dei nostri pensieri? 
Se tolgo la parola “viaggio” e la sostituisco con “vita”, il testo funziona lo stesso? Posso parlare con bambini di 10/11 anni della vita? Non sarebbe forse più facile fare un bel riassunto e leggere una storia buffa? ...vabbè, anche le storie buffe parlano della vita e anche i bambini, come me, sono stupiti dallo scorrere dei giorni e sempre si chiedono il perché delle cose (anche se a scuola fanno finta che questo non li interessi per niente, fanno finta. Ed è difficilissimo convincerli del contrario)